«Hello cruel world / I'm not going away / So I might as well have my say», canta Joe Jackson in Hope and Fury, e non c’è dubbio che, in un momento in cui molti dei suoi contemporanei hanno perso la loro passione, il loro talento, la loro voce o persino la vita, Jackson continui a crescere sempre di più.
Sebbene spesso descritto come un artista camaleontico che “cambia continuamente stile”, Jackson sostiene che la maggior parte dei suoi album appartengano al “suo personale mainstream”: raccolte di canzoni pop sofisticate, che utilizzano combinazioni di strumenti e di ritmi diversi. Allo stesso tempo, Jackson rivendica il diritto di allontanarsi dalla sua cifra stilistica abituale. Come ha dichiarato in una rara intervista recente per la rivista britannica Chap: «Ho sempre saputo che avrei fatto musica per tutta la vita. Quindi, ogni tanto, faccio qualcosa di diverso, per mantenerla interessante.»
Con Hope and Fury, Jackson torna al presente e al suo “JJ mainstream”, presentando nove nuovi brani di grande forza e ispirazione. Dopo aver gettato le basi dell’album ai Fuzz Factory Studios di Michael Tibes a Berlino, è tornato ai Reservoir Studios di New York con il co-produttore Patrick Dillett, riunendo la sua band “a intermittenza” dal 2016: il “bassista per la vita” Graham Maby, il chitarrista Teddy Kumpel e il batterista Doug Yowell — con l’aggiunta delle percussioni latine del musicista peruviano Paulo Stagnaro.
Il risultato potrebbe ricordare ai fan un incrocio tra Fool (2019), Laughter and Lust (1991) e Night and Day (1982). Come quegli album, anche Hope and Fury trabocca di grandi melodie, testi intelligenti e originali e groove funky, con la voce e il pianoforte di Jackson forti come — se non più forti di — sempre. In linea con il titolo (un gioco ironico su Land of Hope and Glory), questo è un Joe Jackson più inglese che mai, forse con un’eco dell’influenza di Max Champion, con brani che sembrano riflettere un rapporto di amore e odio con la sua terra d’origine.
Il brano di apertura, Welcome to Burning-By-Sea, descrive una cittadina costiera immaginaria ispirata a Brighton e alla Portsmouth natale di Jackson, ma che finisce per rappresentare un microcosmo dell’intero Paese. End of the Pier, invece, contrappone in modo brillante uno spaccato della vita della classe operaia britannica nel 1922 con una versione post-pandemica del 2022.
Nel complesso, è un album pieno di contrasti, ma dal tono prevalentemente energico, con l’inconfondibile ironia “alla JJ” sempre in evidenza: dal sarcasmo tagliente di I’m Not Sorry, alla parodia giocosa di Fabulous People, fino alla pura e semplice follia di Do Do Do.
Altri due brani rientrano nella modalità melodica “agrodolce” tipica di Jackson: Made God Laugh esprime una sorta di serena rassegnazione adulta di fronte alla vita, mentre After All This Time affronta temi simili all’interno di una relazione di lunga durata. L’album segue anche una tradizione tipica di Joe Jackson, chiudendo con una ballata lenta — in questo caso una delle sue più belle, See You in September.
Joe Jackson non ha alcuna intenzione di fermarsi. Dividendo il suo tempo tra New York e Portsmouth (UK), l’artista si definisce “bicoastal”, tanto geograficamente quanto musicalmente — e descrive Hope and Fury come Bicoastal LatinJazzFunkRock. Restate sintonizzati: nuova musica in arrivo molto presto!