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FANTASCIENZA SOCIALE

FANTASCIENZA SOCIALE - Intervista agli: Stardom (Neo Wave) Testo di: Monica Calanni Rindina Foto di: Emanuela Zini e Oliver Pavicevic Line up: Riccardo Angiolani Rcd (voce), Antonio Florita Fafnir (chitarra, cori), Cristina Corti LaCrisi (chitarra, voce, cori), Oliver Pavicevic (basso, cori e altro) www.facebook.com/Stardom Info & booking: stardom.mi@gmail.com A quasi dieci anni di distanza dalla compilation “United Forces of Phoenix. Vol. 2” della Nomadism Records, l’indispensabile esordio della band nel panorama della musica underground, seguito da due cd ufficiali “Soviet della moda” e “Danze illiberali” entrambi dell’etichetta Danze Moderne, gli Stardom stanno lavorando a un ep di 4 pezzi che, come anticipano, avrà sonorità diverse dal loro consueto sound. Questa, estrema o tiepida svolta - attendo di ascoltare i pezzi per dirlo - mi sembra l’occasione giusta per fare il punto con la band sull’avventura Stardom, per tirare le somme del loro ruolo nella scena wave di oggi e di ieri. Prima di entrare nel vivo dell’intervista, vorrei spendere qualche parola per descrivere gli Stardom, che mi piace definire musicisti caratterizzati da un particolare crossover fra la tradizione italiana (Diaframma, CCCP, Litfiba), la new wave e il dark degli anni ’80 (Joy Division, Cure, Smiths) e le new wave di ultima generazione (Interpol, Placebo, White Rose Movement). Tutto ciò, mescolato a influenze di band come Smashing Pumpkins e Radiohead... e una robusta ritmica che strizza l’occhio a funky e jazz. In conclusione una band che ha esplorato e combinato diversi territori regalandoci una versione assolutamente personale della fusione di vari generi caratterizzando il progetto col cantato in italiano. Con numerosi concerti all’attivo è praticamente impossibile non averli mai visti dal vivo in concerti interpretati costantemente con piglio deciso ed enfatico. Gli Stardom, decisamente legati all’ambiente wave ma con punti di contatto anche con il goth, hanno condiviso il palco con band del calibro di Clan of Xymox, Christian Death, Death in June, Skeletal Family, 999, Spizzenergi, Krisma+Garbo, No More, Alice... Milano è la città che li rappresenta, anche se la formazione è quella di un giovane e vitale ensamble Europeo. Rcd, già voce negli anni Ottanta di diverse formazioni dark e punk marchigiane e poi dj negli ambienti goth del nord e del centro Italia. Fafnir, già voce e chitarrista negli anni Novanta di una formazione lombarda di genere new wave. LaCrisi, dapprima impegnata soprattutto alle tastiere, e ora chitarrista e vocalist a tempo pieno, è italo-bosniaca e ha alle spalle un’esperienza di cantante in una band synth-pop. Oliver Pavicevic, bassista, originario della Lettonia, musicalmente è cresciuto a Belgrado (Serbia), dove ha suonato con molte band, mescolando rock e jazz; per ottenere il suono che ama, utilizza bassi che si costruisce da sé. Addentriamoci nel cuore dell’intervista... Benvenuti su Frequenze Umane. Una domanda a bruciapelo. Cosa rappresenta il nuovo ep nel percorso artistico degli Stardom? Sarà un lavoro che sancisce una svolta dal punto di vista produttivo, che strizza l’occhio verso un nuovo pubblico? Oliver: Più che strizzare l’occhio al nuovo pubblico, direi che si tratta proprio di una necessità interiore che ha la sua logica nell’insieme dell’organismo del gruppo. Sinceramente parlando, non abbiamo mai strizzato l’occhio al pubblico, almeno, non dal punto di vista commerciale. Fin dal primo giorno abbiamo fatto sempre quello che in quel momento sentivamo di dover e voler fare, senza alcuna specifica premeditazione. Ovvero, si potrebbe dire che l’unica premeditazione consista nel filtrare le idee, e magari indirizzarle in una direzione o nell’altra, con lo scopo di ottenere un “prodotto” coerente e compatto. Voi sceglieste di cantare in italiano da subito. Una strada per far capire bene i vostri messaggi? Continuerete in questa direzione o pensate che la passata scelta vi abbia tarpato un po’ le ali a livello Europeo? Oliver: Domanda semplice ma risposta difficile. Siamo partiti con l’idea che se intendevamo suonare in Italia, sarebbe stato sicuramente meglio cantare in italiano, questo perché la musica deve comunicare con il pubblico, e non esiste modo migliore per trasmettere un messaggio che cantare nella lingua del proprio pubblico. Ma questo non vuol dire che lungo la strada non ci siamo posti la domanda se valesse la pena insistere su tale scelta. Con questa crisi economica e culturale che stiamo vivendo, ormai ci sono ben pochi posti dove venga apprezzata la musica dal vivo, e un eventuale cantato in inglese sicuramente aiuterebbe ad ampliare il pubblico. Così abbiamo colto l’occasione della partecipazione a una compilation di tributo ai Joy Division con la nostra cover di “Interzone” per cantare per la prima volta in inglese. Sul prossimo Ep almeno un pezzo in inglese troverà posto. Antonio: Personalmente, fin dagli anni ’90 con la mia prima band, sono stato uno strenuo sostenitore dell’uso della nostra lingua anche per un “genere” musicale ritenuto ostico e “scivoloso” rispetto all’impiego dell’italiano, come la new wave e la dark wave. Ma non posso che concordare con Oliver. Non ha senso perseguire con inflessibile intransigenza una scelta fondata sull’ideale quando essa non ti permette di penetrare il pubblico o è comunque ostacolata dalla situazione contingente. D’altra parte siamo cresciuti con riferimenti musicali in lingua anglosassone che nemmeno è il caso di elencare. Ad ogni modo riteniamo di aver dato il nostro valido contributo in lingua italiana e pertanto, l’eventualità di comporre e cantare anche testi in inglese non toglie né dignità né valore a quanto realizzato finora. I vostri lavori sono sempre stati caratterizzati da riferimenti con un’attenta osservazione della decadenza sociale. Ritroveremo questa caratteristica anche nei prossimi pezzi? Oliver: A meno che le condizioni della società odierna non cambino radicalmente in meglio, ci potete scommettere. Antonio: Beh, dipende anche se sceglieremo di rimestare nel torbido della collettività oppure in quello delle nostre esperienze personali. Di mostri e ombre ve ne sono in abbondanza. Ma non è che andiamo a cercarli col lanternino, tanto per il gusto di fare critica sociale: più che altro sono la desolazione e l’abbruttimento che si stringono intorno a noi ed è difficile raccontare qualcosa di diverso da ciò che l’esperienza ci ripresenta di continuo. Siete un gruppo estremamente coeso e questo vi fa onore. Per pura amicizia? Ampio e reale rispetto? Oliver: Terrore! Ahaha... Scherzo. Gli Stardom sono da sempre un autentico organico, e come tale al nostro interno non è mai esistita una rigida suddivisione di compiti (a parte per inevitabili aspetti tecnici), piuttosto un complesso intreccio delle idee. Immagino che per tanti sarebbe molto difficile lavorare in questo modo, visto che la ripartizione dei compiti di solito è sinonimo di efficienza. Ma non nel caso nostro. Noi ci orientiamo molto bene nel caos creativo, è la nostra perfetta condizione per la creatività. Quanto all’amicizia, sì, siamo molto amici, e non è possibile dire cosa viene per prima, se l’amicizia o la musica. Credo che esserci conosciuti attraverso la musica e le nostre idee ci abbia legati profondamente e questo forte legame (nel bene e nel male) è molto vicino a quello di una vera famiglia. Antonio: Divergenze di idee e attriti sono ovviamente inevitabili. L’amicizia potrebbe apparire d’ostacolo, più che di aiuto, in certi casi, ma in noi è sempre prevalsa l’onestà intellettuale e soprattutto la dedizione alla “causa”, ossia compiere quelle scelte che sappiamo e sentiamo dare il risultato migliore, al di là dei personalismi. Come nascono i pezzi? Vi scambiate reciprocamente opinioni e consigli? Oppure ognuno viaggia per la propria strada fino a convergere durante le prove? Oliver: Non esiste una sola persona che compone, scrive testi, non esiste neppure un “leader”: tutto quello che facciamo è un complesso lavoro di squadra. Inizialmente, magari, si parte magari da un idea, un abbozzo portato da qualcuno, ma poi questa idea di solito viene in buona parte stravolta e rielaborata finché non diventa un lavoro di tutti. Tra l’idea iniziale e quella finale, spesso passano anche settimane, soprattutto nella fase dell\'arrangiamento, che per noi è oggetto della massima cura e attenzione. Altre volte accendiamo il registratore e suoniamo con la chitarra acustica finche non ci viene un’idea di partenza intorno alla quale costruiamo via via il brano come un puzzle, finché, attraverso vari tentativi e sperimentazioni, tutti i pezzi finiscono al posto giusto. Antonio: Oliver ha spiegato bene il nostro processo di composizione, ma ovviamente in questo schema si inseriscono elementi imponderabili che fanno spesso la differenza. Può accadere cioè che già a un livello di produzione piuttosto avanzato qualcuno di noi sia colto da un’intuizione vincente e convincente, e in questi casi siamo disposti a rivedere e ripensare anche molto del lavoro già fatto, se riteniamo che lo stravolgimento sarà ben ripagato dal risultato finale. Raccontateci qualche aneddoto riguardante le fasi di prove e registrazione. I lettori sono sempre curiosi del “dietro le quinte”, di quello che non si vede. Antonio: Ricordo un episodio divertente legato alla lavorazione di “Danze illiberali”, un periodo tormentato peraltro da molte difficoltà e contrattempi ma anche caratterizzato da un’impennata creativa e da un tenace entusiasmo senza i quali probabilmente non ce l’avremmo fatta. Ci fu un momento, in particolare, in cui Riccardo per varie ragioni faticava a essere presente con continuità. Abituato ormai a ritmi lenti, progressi stentati e lunghe ed estenuanti sedute di registrazione, fece un sobbalzo quando, giunto una sera in studio, gli mettemmo davanti un foglio A4 col testo di “Attimi isterici” e gli dicemmo: “Rick, devi cantare questa”. “E cos’è?” chiese lui sbalordito. “Una nuova canzone”. “Ma quando abbiamo provato l’altra volta non c’era!” “Sì, infatti. E adesso invece c’è.” E davvero è stato così. Quella canzone è nata e si è sviluppata prodigiosamente in pochissimi giorni, prendendo forma con una naturalezza e rapidità che, in quel contesto, aveva davvero del miracoloso. Riccardo ancora adesso si interroga sul “mistero di Attimi isterici”! Se dovessi consigliare un disco degli Stardom a uno sconosciuto in rappresentazione della vostra musica, quale scegliereste? Antonio: Per tanti motivi credo per lo più che indicheremmo “Danze illiberali”, ma ovviamente gli amanti di una certa corrente wave minimalista più facilmente potrebbero optare per “Soviet della moda”. Quindi... dovremmo capire un minimo l’orientamento dello sconosciuto per dargli un suggerimento. Definite gli Stardom con un verso estrapolato da una vostra canzone... “Scivolando lungo i muri / come ombre cinesi / in un sogno di carta” Se dovessi descrivere la band con un colore quale sarebbe e perchè? Diciamo un rosso cupo? Qualcosa che richiama il colore “perso” dell’Inferno dantesco, un insieme di malinconia, furore, passione e cupezza che lasciano però intravedere, oltre il pallore bigio del crepuscolo, l’esistenza di un sole. Quali band dell’ambiente “underground” italiano apprezzate e stimate maggiormente? Riccardo: Le band che ci piacciono nel panorama attuale italiano sono molte, e sarebbe impossibile citarle tutte. Esiste una pagina Facebook creata da me e seguita con cura anche da Valerio Lovecchio degli Yabanci che sia chiama Neo Wave e dove, chi fosse interessato, può trovarne molte. Io, in particolare, ho una predilezione per quelle che hanno scelto il cantato in italiano. Mi piace molto il synth pop dei Delenda Noia, le atmosfere dense e a tratti cantautorali dei Karma In Auge, la raffinatezza di Ottodix, il punk electro dei Cineteca Meccanica (con i quali abbiamo inciso il brano “Magazzini criminali, uscito in “Danze illiberali”). Ma potrei citare Marlat, Sinezamia, Favole Nere, KlownFish... Poi ci sono band che apprezzo tantissimo pur avendo fatto la scelta dell’inglese: Starcontrol, Der Himmel über Berlin, The Stompcrash, Vidi Aquam... Insomma un panorama ricchissimo e spesso per nulla scontato, ma purtroppo sconosciuto ai più. Ascoltare per credere! Avete fatto moltissimi concerti in Italia. Ce ne è qualcuno ai quali siete rimasti particolarmente affezionati? Non manchiamo mai di citare la palpitante serata del 31 ottobre 2007 al Rainbow di Milano con i Krisma e Garbo, ma possiamo dire anche il Bats Over Milan nel 2008 al Musicdrome sempre a Milano, con importanti band internazionali, e ancora al Theatre di Rozzano nel dicembre 2012, aprendo ai Death in June. Ma, assolutamente, ci teniamo a ricordare la nostra esibizione, in provincia di Treviso, nel 2010, in occasione della raccolta fondi in favore della famiglia del bassista dei Japan Mick Karn. So che ascoltate moltissima musica. Quali le sonorità che ultimamente girano nel lettore cd di casa vostra? Quali sono le novità più interessanti che avete scovato negli ultimi mesi? Riccardo: Dobbiamo senz’altro nominare, per quanto riguarda il panorama italiano, il nuovo ep dei Karma In Auge: “Socialnoia”, mentre a livello internazionale il nuovo album degli Interpol: “El Pintor”. Ma oggi, complici i nuovi ritmi di vita, le nuove tecnologie e la conseguente modificazione nelle modalità di conoscere e fruire la musica, per l’ascoltatore odierno il tempo è diventato relativo, come relativo è il concetto di “nuovo” e “novità”: riascoltare dopo molto tempo un cd dei Sonic Youth potrebbe fare l’effetto di un’autentica “prima volta”. Concludo l’intervista salutando e ringraziando gli Stardom per la loro disponibilità. Questa chiacchierata chiarisce come questi ragazzi facciano sul serio e accresce il mio personale ritratto di una band non solo capace di scrivere della buona musica, ma anche fondamentalmente matura e compatta. Una band che possiede una certa “personalità”. Decisamente uno dei loro punti di forza. Dal punto di vista strettamente musicale ho apprezzato moltissimo gli esordi e penso siano una delle band contemporanee che possiedono qualcosa di realmente valido. Aspetto con curiosità di ascoltare i nuovi pezzi certa di trovare la solita vitalità, energia e di perdermi in sonorità laterali, che toccano nel profondo la debolezza esistenziale. Gli Stardom meritano fiducia, c’è qualità, su questo non c’è dubbio. a cura di: Monica Calanni Rindina www.facebook.com/mamolifestyle
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