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LA LINEA DEL PANE

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'Utopia di un'autopsia' e' il disco d'esordio dei milanesi La Linea del Pane, uscito per QB Music dopo una ghost release ad inizio 2014. Undici brani che partono dalla vena cantautorale di Teo Manzo, voce e chitarra del terzetto, per aprirsi alle logiche della band (i fondamentali Marco Citroni al basso e Kevin Every alla batteria) ed a sviluppi elettrici non scontati. Manzo crea un'argomentazione in musica fondata su storie, ma soprattutto su personaggi, che, in un modo o nell'altro, sanno decidere della propria fine. Canzoni che, più che 'd'amore' e 'di morte', possono definirsi 'd'inizio' e 'di fine', sempre nell'ottica della liberta', della scelta degli individui, che non subiscono i capricci del cosmo, ma mettono in scena 'l'utopia dell'autopsia': l'idea di una fine che soppianti la fine delle idee. A vestire le canzoni abiti sonori minimali, che si affidano a mani esterne solo per i misurati inserti di violino, rimanendo il piu' possibile fedeli alla formazione a tre che contribuisce a rimescolare le carte in tavola rispetto a piu' ovvie soluzioni di stampo cantautorale. Ritmiche intense ma sempre funzionali all'insieme si uniscono cosi' ad un basso dai richiami quasi prog che costruisce solide e inaspettate architetture ed a chitarre trasformiste, che accompagnano la voce in arpeggi acustici o ondate elettriche. 'Se dovessimo individuare, improba attività, il denominatore che accomuna gli artisti del nostro tempo, me compreso, penso ci accorderemmo su un punto: il movente che li spinge a volersi considerare tali altro non e' che un'irresistibile fascinazione, un'attrazione devota per una non meglio precisata decadenza - racconta Teo Manzo, voce e chitarra della band -. Questa decadenza, secondo questa mia azzardata teoria, attecchisce e prolifera in ogni luogo dell’arte, in ogni genere ed espressione questa coltivi, per ragioni del tutto connesse all'estetica del nostro tempo. E' seducente per gli artisti essere decadenti, assumere questa posa inclinata, reclinata, assorta. Tutti gli artisti aspirano a diventare estetisti (nemmeno esteti, badate) di questa bellezza presunta. Piu' che un peccato mortale, direi che e' un peccato originale. Un tale ecosistema ospita, naturalmente, la famosa Licenza Poetica, animale camaleontico e democratico che consente a chiunque qualunque cosa. Ebbene, gli artisti si crogiolano in questa agonia (solo mascherata da decadenza) immobili, ma in fondo terrorizzati all'idea della propria estinzione, impedendo cosi' la rifondazione, l'inizio di un nuovo corso. Trovare il coraggio della morte, l'ammissione inconfessabile della propria fine sarebbe, per gli artisti tutti, l'unica via di redenzione. Da diversi anni ho iniziato a scrivere, tra le altre, canzoni che prendessero spunto da queste riflessioni. Difficile declinare tali argomentazioni in forma di canzone, ne converrete. Così, come spesso conviene, per parlare di cio' ho parlato d'altro. Non in senso allegorico o simbolico, ma evocando personaggi che fondassero la propria ragione d'essere sulla consapevolezza della fine, sullo sceglierla volontariamente, su questa liberta' preziosa che viene interpretata come una condanna degli uomini. Questa fine impellente coinvolge ed avvolge tutto e tutti, l'arte stessa ne e' attraversata. E dell'arte si racconta diffusamente: degli artisti ormai solo intrattenitori, del popolo che e' solo pubblico ma, soprattutto, del pubblico che e' solo popolo. In tal senso, il concetto di 'autopsia dell'utopia', ovvero la fine delle idee, perde di ogni rilevanza, soppiantato dal suo legittimo contrario: l'idea di una fine, l'utopia di un'autopsia. Queste, sommariamente, sono le condizioni climatiche che hanno contribuito alla nascita di questa decina di canzoni. A voi giudicare se e quanto, le prime e le seconde, fossero e siano proibitive.'

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