Con Asylum Lullabies, il duo non stravolge ma affina. L’elettronica, sempre in evoluzione, qui si fa più scura, a tratti corrosiva, lasciando emergere– ma solo a sprazzi – l’eco dell’esperienza di Maybelline come Qual: atmosfere ‘depresse’, ritmiche tese e un senso di claustrofobia che serpeggia lungo tutto il disco. È un lavoro che parla di isolamento, instabilità psicologica, angoscia urbana, guerre interiori e collettive – un viaggio disturbante che trasforma il consueto distacco del duo in qualcosa di più incisivo e viscerale. La critica, stavolta, si è divisa: c’è chi lo ha liquidato come troppo cupo e pesante, chi, invece, lo ha accolto come un passo coraggioso in avanti. A mio avviso, l’album richiede tempo, ma sa ricompensare: sotto la superficie glaciale si muovono tensioni nuove, che spingono il linguaggio verso territori più estremi senza mai tradire l’identità. La voce di Larissa Iceglass continua a essere il fulcro emotivo dei Lebanon Hanover: il timbro distante, a volte scostante, sembra qui più carico di fragilità, come se in Asylum Lullabies avesse trovato uno spazio inesplorato tra freddezza e vulnerabilità. Non c’è compiacimento, bensì una naturalezza triste, che ‘abita’ le canzoni, scivolando sopra i beat più duri per confonderli con tonalità più eteree: in alcuni brani il contrasto è particolarmente evidente: l’elettronica si fa più tagliente, ma lei resta sospesa, quasi ipnotica – o ipnotizzata? – come se fosse l’unico elemento saldo in mezzo al caos.